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Progressisti e Decolonizzazione: una Barzelletta che non fa Ridere

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Di Alex Aragona. Titolo originale: The Not-So-Funny Joke of Progressive “Decolonization”, del 9 ottobre 2023. Traduzione italiana di Enrico Sanna.

Quando si parla di colonialismo, tra gesti di ammissione, da un lato, e ignoranza sociale e negazione delle atrocità del passato, dall’altro, si sceglie senza esitare la seconda opzione. Così che quei politici che fanno discorsi, presentano mozioni, creano ricorrenze e insomma fanno gesti di ammissione e riconoscimento delle atrocità subite dalle popolazioni coloniali, non andrebbero visti con scetticismo totale. Sono atti che possono essere utili e produrre effetti sociali e culturali positivi.

Il problema è che presso tanti progressisti gesti e simboli sono tutto. Si sfruttano spesso concetti estremi come “decolonizzazione” in quelli che sono semplici segnali e gesti morali da parte di persone non indigene, e tutto ciò serve a far sentire meglio se stessi e i propri simili quando si parla delle origini di istituzioni coloniali e strutture di dominio di generazioni fa; il tutto però senza modificare o anche solo sfiorare quei capisaldi che permettono di tenere in piedi e perpetuare la pratica colonialista. Il risultato è una “decolonizzazione” annacquata espressa da frasi come “il fine ultimo sono le riforme, non decolonizzare”, una frase che sfiora appena il trauma spirituale e generazionale subito dalle popolazioni indigene.

Un esempio di questo stupido “decolonialismo” progressista lo diede nel 2016 il primo ministro canadese Justin Trudeau. Durante la luna di miele elettorale, annunciò che il suo governo avrebbe rivisto leggi e comportamenti al fine di “decolonizzare” il Canada e i suoi rapporti con le popolazioni indigene.

L’aggettivo “orwelliano”, pur abusato, in questo caso è più che appropriato. Come spesso spiegava Orwell, una verità evidente, un fatto o un principio logico possono essere corrotti semplicemente sostituendo un termine chiaro con uno offuscato, ad esempio “compiere un attacco chirurgico” o “neutralizzare” invece di “uccidere”. O servendosi di frasi improbabili, come “la Repubblica Democratica Popolare della Corea del Nord è una prigione dittatoriale”. Per tornare a Trudeau, dunque, a meno che non intendesse dedicare il proprio mandato a cancellare ogni residuo legame istituzionale o simbolico che il Canada ancora ha con l’Inghilterra, smantellando tutto ciò che riguarda lo stato canadese e le sue strutture di governo a tutti i livelli istituzionali per poi dare le dimissioni dal suo ormai defunto incarico (e restituire territori e poteri alle popolazioni indigene e alle loro strutture di autogoverno), che il primo ministro di uno stato colonizzatore parli di decolonizzazione sembra proprio orwelliano.

E infatti non intendeva questo. Come giustamente nota un articolo alla radio pubblica canadese di un certo Anishaabe (forse con un accento di disprezzo, ma non lo sapremo mai per certo), “la parola decolonizzazione può avere tanti significati, secondo chi lo utilizza.” Nel caso di Trudeau e dei suoi progressisti, è lui stesso a spiegarlo:

Significa sostanzialmente vedere gli effetti prodotti da molte leggi federali e molti quadri normativi ed eliminare quegli elementi che, invece di offrire giustizia e opportunità, e la possibilità di una riconciliazione, bloccano le opportunità di crescita e di successo delle comunità indigene del paese [corsivo mio].

Suona bene, ma è molto significativo che il primo ministro abbia “evidenziato” il fatto che “il governo per arrivare a ciò non toccherà la costituzione”. Tanto per non allarmare nessuno. Insomma, nessuna proposta che vada al cuore del rapporto con le popolazioni indigene e le strutture istituzionali imposte loro. Lo stato canadese, uno stato coloniale di coloni, non si tocca, resterà perlopiù come è stato progettato più di un secolo e mezzo fa. Al massimo, i dipendenti statali avranno ferie pagate e potranno cambiare il nome dei dipartimenti per renderli meno offensivi.

Definire “decolonizzazione” un processo che si limita a rendere più efficienti pratiche e istituzioni integrando meglio le popolazioni indigene e i loro bisogni significa fare confusione sui significati: meglio dire che si tratta di un tentativo di migliorare o rendere più umana la colonizzazione. Dopotutto, anche disboscare significa eliminare il bosco, non fare manutenzione e potatura o togliere qualche pianta per far posto ad un’altra.

Facendo propri certi termini pregnanti i progressisti (qui ma anche in altri casi simili) vogliono indorare la pillola di un riformismo annacquato dandogli un’apparenza radicale. In altre parole, giocano con i termini radicali (o meglio, ammiccano) ma senza una vera intenzione di fare alcunché di estremo. Ma anche ammettendo che Trudeau e i suoi compagni progressisti riescano ad acquisire abbastanza competenze da mettere in pratica la loro “decolonizzazione” (molti dicono che non riusciranno a fare neanche quello), un fatto è sicuro: le popolazioni indigene continuerebbero ad essere governate dagli stessi arrangiamenti istituzionali, dalle stesse dinamiche di potere e pratiche contestuali di dominio che sono la causa principale di infinite ingiustizie da generazioni.

Questa è la barzelletta della “decolonizzazione” dei progressisti, e più in generale del loro appropriarsi di un linguaggio estremistico. Fanno e disfano: da un lato denunciano l’inerente ingiustizia delle strutture attuali, e dall’altro ammettono, forse a malincuore o forse no, che cambiare o eliminare le dinamiche di potere non è tra i loro programmi. E intanto acquisiscono il potere e lo mantengono proprio tramite quel sistema che denunciano.

Questa ipocrisia progressista è non solo un problema in sé, ma anche fonte di insidie per il dibattito in genere. Se si vuole sentir parlare di “decolonizzazione” in Canada non serve cercare a fondo, soprattutto nelle città, per trovare eventi (come una cerimonia di laurea) in cui si parla di diritto a una terra. E non è difficile trovare il tipo del progressista urbano socialmente consapevole che si sciacqua la bocca con le atrocità compiute sulle popolazioni indigene dagli imperi inglese e francese e dai coloni. Ma una cosa è riconoscere a parole e con gesti simbolici la creazione e l’imposizione delle istituzioni coloniali; altro è ammettere che quelle istituzioni sono ancora vive e attive, perdurano e in molti casi vengono anche rafforzate, e agire di conseguenza.

Chi appiccica l’etichetta della “decolonizzazione” a quella che è una scusa ruffiana lo fa per sentirsi come uno che ha posizioni radicali o che partecipa ad azioni radicali, mentre in realtà non fa che aggiungere un bollino alla raccolta punti della responsabilità e moralità progressista.

È per questo che discorsi, proposte e date simboliche vengono digeriti facilmente. Per una persona dalla moralità media è relativamente facile perlomeno riconoscere i crimini del passato e denunciare le malefatte altrui; ovvero, di persone morte tanti anni fa. Al contrario, andare oltre una blanda riforma o di un semplice addolcimento dello stato e delle sue istituzioni oppressive non fa breccia sulle masse o su chi è sempre pronto ad approvare tutto a parole. Per andare oltre, occorre prima riconoscere ciò che accade oggi, e non è facile perché occorre necessariamente un certo livello di responsabilità da parte di chi oggi trae beneficio da certe regole e ingiustizie istituzionali.

Se il colonialismo, la fondazione di istituzioni insediative coloniali furono ingiustizie, un minimo di onestà e senso di responsabilità impone che si vada oltre un semplice chiedere scusa. Se vogliamo analizzare a fondo il termine colonialismo, dobbiamo andare al cuore della questione, ammettere che la pratica è ancora viva e riflettere su cosa comporta una vera decolonizzazione. Se i progressisti fossero più sinceri riguardo le loro vere intenzioni, se la smettessero di giocare a fare gli estremisti, starebbero già iniziando ad invalidarsi. E ovviamente si entra nelle sale del potere invalidando se stessi. Se vuoi entrare nelle sale del potere, devi avere una tua versione di termini radicali come “decolonizzazione”, e servirtene come guida dei tuoi atti politici.

Si capisce che queste tattiche retoriche sono uno specchio per le allodole. Qual’è la questione più importante, allora? I progressisti che si servono di queste tattiche, o il fatto che parte del mondo accademico, i media e la sfera intellettuale pubblica gli tiene bordone?

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